Intervista di Leonardo Libenzi a Ghesce Thubten Dargye

Intervista a Ghesce Thubten Dargye estratta dal libro
LA MENTE LIBERATA | Dialoghi sulla pratica del buddhismo nell’era della crisi e della globalizzazione
di Leonardo Libenzi e Maria Immacolata Macioti
Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform
Disponibile su Amazon in formato cartaceo e digitale:
http://www.amazon.it/dp/153080258X
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E’ anche possibile scaricare l’intervista in formato PDF con numerose note aggiuntive:
LA MENTE LIBERATA (a cura di Leonardo Libenzi). Intervista Ghesce la
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Ghesce Thubten Dargye nasce nel 1949 a Tashigang, in Bhutan. All’età di quindici anni conosce il suo primo maestro, un Lama Gelug dal monastero di Tawang, in Arunachal Pradesh (India), giunto in Buthan per dare insegnamenti: studierà sotto la sua guida per i successivi quattro anni.
Nel 1960 è il primo monaco buddhista di tradizione Gelug ad essere ordinato in India dopo la fallita rivolta tibetana del 1959 e l’esilio indiano di SS. il Dalai Lama e di molti altri grandi maestri. Riceve i voti dal Ven. Serkong Tsenshab Rinpoche, maestro dello stesso Dalai Lama e riconosciuto all’epoca come il più alto tra i lama reincarnati presenti al monastero di Gaden. Studia presso il medesimo monastero sotto la guida di vari maestri qualificati, tra cui gli abati Kensur Yeshe Gawa, Kensur Sonam Gyaltsen e Khenpo Atso Sonam Kunga. Nel 1994 consegue il titolo di studio di Ghesce Lharampa. Dopo gli esami, viene scelto per dibattere davanti a Sua Santità il Dalai Lama a Dharamsala, davanti a un’assemblea di Maestri e monaci proveniente dai più grandi monasteri in India.
Una volta conseguito il titolo, trascorre un anno nel monastero tantrico di Gyudmed, dove studia i testi tantrici. Successivamente torna in Bhutan, e nei sei anni successivi fa numerosi ritiri in alta montagna, accompagnato da un piccolo gruppo di discepoli.
Nel 2002 viene richiamato dal suo monastero per guidare un tour di monaci della durata di un anno negli Stati Uniti e in Canada. Nel 2005, sempre su richiesta del monastero, conduce un tour simile in Italia e in altri paesi europei. Tra il 2006 e il 2007 insegna in un centro buddhista in Taiwan.
Dalla primavera del 2012 è maestro residente e guida spirituale dell’Istituto Samantabhadra di Roma. Conduce ritiri e dà insegnamenti in vari centri di Dharma del territorio italiano.


 
I tempi e i luoghi dell’intervista
Nel marzo del 2011 ho iniziato a seguire con regolarità le lezioni di buddhismo tibetano condotte da Ghesce Dargye presso l’Istituto Samantabhadra di Roma. Sono rimasto colpito fin dal primo momento dalla sua saggezza, dalla sua gentilezza e dal suo spiccato senso dell’umorismo, e ho deciso di diventare suo allievo.
Ho intervistato il maestro nel corso di due incontri, nel luglio del 2012. Ci siamo ritrovati nella sua stanza di pratica, al secondo piano dell’Istituto Samantabhadra. Immagini sacre alle pareti, offerte davanti all’altare, candele, profumo di incensi. Era pomeriggio, fuori dalla finestra, i raggi del sole filtravano attraverso i rami degli alberi. 
Il maestro stava seduto a gambe incrociate su un divano. Il divano era coperto da una stoffa color zafferano. Al termine dell’intervista, come da tradizione, mi ha annodato intorno al polso un braccialetto tibetano di fili intrecciati.
Leonardo Libenzi
 
Intervista
Com’è avvenuto il suo incontro con il buddhismo? 
Mio nonno era un monaco di origini tibetane. Anche mio padre era un praticante buddhista, e mi ha insegnato i fondamenti del Dharma e della lingua tibetana scritta e parlata. Date queste premesse, il mio incontro con il buddhismo è stato spontaneo e naturale sin dal primo momento.
Successivamente ho iniziato a studiare e praticare sotto la guida di un monaco, che era stato a sua volta in Tibet. A seguito del suo trapasso, mi sono recato in India per prendere parte ai riti funebri che si sarebbero tenuti in un distretto al confine tra l’India e il Buthan: lì ho assistito a un grande raduno di monaci tibetani che si erano trasferiti in India insieme a Sua Santità il Dalai Lama a seguito del suo esilio del 1959. Vedendoli, ho subito provato il desiderio di prendere i voti e di unirmi a loro. Così mi sono trasferito nel sud dell’India, dove via via venivano ricostruiti nuovi monasteri, e dove ho studiato a lungo per ottenere il titolo di Ghesce.
C’è stato poi un successivo incontro, quello con l’Europa, e in particolare con l’Italia. 
Nel 2005 sono stato incaricato di guidare un tour in Occidente dei monaci del mio monastero di Gaden Jangtse. In quell’occasione ho subito creato un legame con l’Istituto Samantabhadra di Roma, dove sono stato invitato tre anni più tardi per condurre un ciclo di insegnamenti, e dove infine mi sono trasferito stabilmente.
Fin dalla prima volta, sono rimasto colpito dalla grande quantità di chiese e monasteri cattolici che si trovano nel vostro paese. Ho intrattenuto solo rapporti formali con i monaci cattolici, e non intendo in alcun modo esprimere giudizi sulla loro formazione e sul loro iter di studi; ciò nonostante, trovo che l’organizzazione della vita monastica in Occidente abbia molti punti di contatto con la vita di un monaco buddhista – gli spazi comuni, i ritmi della vita quotidiana, il modo in cui viene preparato il cibo nelle cucine, le attività giornaliere, il voto di castità, e così via. Questa cosa mi ha fatto un’ottima impressione.
Per quanto riguarda i laici occidentali, di nuovo, non ho avuto modo di conoscerli uno ad uno, quindi non posso che esprimere un’impressione generale. Ho visto intorno a me un grande progresso e tanto benessere materiale. Inoltre, sono rimasto colpito dal grande interesse che occidentali nutrono nei confronti del buddhismo. Sono molti, insomma, gli aspetti di questa cultura che mi piacciono.
C’è una cosa, però, che mi ha colpito negativamente fin dall’inizio: il rapporto tra genitori e figli che caratterizza gran parte delle famiglie occidentali. Facendo visita a molte abitazioni private, ho notato che di rado i figli hanno quell’atteggiamento di rispetto e di dedizione nei confronti del genitore che invece è così diffuso nella mia terra d’origine. Ad esempio, quando ci si siede a tavola, le madri cucinano, apparecchiano, sparecchiano e lavano i piatti; i figli restano a sedere per tutto il tempo, e si fanno servire e riverire come se fossero degli ospiti. Dalle mie parti, una cosa del genere sarebbe inconcepibile! [ride]
Ancora, mi ha colpito il modo in cui gli occidentali intendono e vivono il rapporto di coppia – e non mi riferisco nello specifico al sacramento del matrimonio. Nella mia terra, i coniugi si prendono realmente l’impegno di affrontare insieme gli alti e i bassi della vita, come recita il famoso detto “Finché morte non vi separi”: l’uomo si prende cura della moglie nel bene e nel male, in tutto e per tutto, e non la abbandona mai; la moglie fa lo stesso con il marito. Qui in Occidente, invece, ci sono tantissimi casi di divorzio, le coppie si dividono con grande facilità, e questa cosa mi è parsa molto strana.
Vorrei ora analizzare con Lei alcuni dei principali equivoci e fraintendimenti che possono sorgere al giorno d’oggi quando si parla di buddhismo tibetano. Partiamo dal Lam Rim, il Sentiero graduale verso l’Illuminazione di Lama Tsongkhapa: un testo fondamentale, a cui molti occidentali si accostano in modo frettoloso o distratto.
Io cerco innanzitutto di far capire alle persone che intraprendere questo sentiero è molto importante, ma ancora più importante è percorrerlo fino in fondo: solo in questo modo avremo la possibilità concreta di trasformare alla radice la nostra mente e la nostra esistenza e di migliorare noi stessi da tutti i punti di vista – la nostra condotta morale, il nostro carattere, e così via. Solo così diventeremo oggetto di rispetto e di riverenza per tutti quelli che ci circondano.
Ancora, illustro alle persone le quattro caratteristiche – o qualità eccelse – che contraddistinguono tutti gli insegnamenti contenuti nel Lam Rim, e i vantaggi che derivano da tali qualità.
Innanzitutto, grazie a una pratica costante e sincera, saremo in grado di recepire ogni singola parola del Buddha come un’istruzione preziosa particolare: in altri termini, tutte le parole del Buddha ci saranno ugualmente utili e indispensabili, e non ci sarà nessun aspetto da scartare.
In secondo luogo, riusciremo a capire e a recepire in un tempo relativamente breve tutti gli infiniti insegnamenti del Buddha contenuti in centinaia e centinaia di volumi: il Lam Rim è infatti la perfetta sintesi dell’intero Canone buddhista tibetano – il Kangyur e il Tenjur – e ci aiuta a comprendere facilmente, senza sforzare la mente, una gamma infinitamente ampia di concetti e di significati.
In terzo luogo, saremo in grado di percepire l’assenza di contraddizioni interne tra i vari insegnamenti del Buddha: senza questa profonda visione d’insieme, è facile cadere in errore, come accade ad esempio quando le persone affermano che il tantra non è un vero insegnamento del Buddha, o come chi, al contrario, si interessa unicamente al tantra e non si applica nello studio e nella pratica dei sūtra. Il Lam Rim, invece, ci mostra come tutti i diversi aspetti dell’insegnamento del Buddha siano perfettamente integrati tra di loro: non solo non si contraddicono a vicenda, ma sono indispensabili l’uno all’altro.
Infine, grazie alla pratica del Lam Rim, tutte le nostre negatività si pacificheranno e svaniranno automaticamente.
Per quanto riguarda, infine, i tre aspetti principali del sentiero – la Nisharana, o rifiuto del sasāra, la generazione della mente di Bodhicitta e la Śūnyatā, la saggezza che percepisce la vacuità o mancanza di esistenza intrinseca di tutti i fenomeni – di nuovo, la cosa più importante è aiutare le persone a comprendere che nessuno di questi tre aspetti, se separato dagli altri due, sarà sufficiente per liberarsi dalle sofferenze del sasāra e raggiungere l’illuminazione di un Buddha.
Analizziamo insieme il primo di questi tre punti fondamentali: la Nisharana, o rifiuto del sasāra. Come si fa, in quanto laici, a realizzare un atteggiamento di autentica rinuncia?
Si può realizzare la Nisharana senza per questo sentirsi in dovere di abbandonare il proprio lavoro, il proprio coniuge, e così via. Lo stesso stato di buddha può essere raggiunto senza necessariamente abbandonare la vita laica. Ce lo insegna, ad esempio, la storia del re indiano Indrabhuti, il quale chiese a Buddha Śākyamuni, di cui era discepolo, un insegnamento che gli consentisse di raggiungere la suprema illuminazione senza per questo abbandonare la propria dimora e senza dover abdicare al ruolo di guida del proprio reame: il Buddha, per aiutarlo a realizzare questo scopo, gli trasmise il tantra di Guhyasamāja. Anche il venerabile Marpa raggiunse lo stato di Buddha pur avendo moglie e figli. Quindi, dov’è il problema?
Non solo, al giorno d’oggi chiedere a un laico di abbandonare le proprie attività quotidiane sarebbe davvero illogico, perché la mancanza di un lavoro gli impedirebbe di sostentarsi: qui in Occidente tutti, anche i monaci che prendono i voti, hanno bisogno di una rendita economica, a differenza di quanto accade in Oriente, dove i monaci possono dedicarsi a tempo pieno alla pratica, ricevendo sostentamento dai monasteri o dalla società stessa, anche tramite l’elemosina. E una rendita economica, ancora, non basta: abbiamo tutti bisogno di un corpo sano. Senza cibo, senza vestiti, senza medicine, come potremmo dedicarci alla pratica?
Qual è, allora, il vero significato della Nisharana? Significa continuare a vivere la nostra vita di tutti i giorni, senza abbandonare nessuno dei nostri impegni essenziali, utilizzando al tempo stesso la pratica per giungere a un punto in cui riusciremo a percepire ogni aspetto di questo mondo, anche il più incredibile e sublime, alla stregua di un precipizio pieno di lava infuocata. È questa la realizzazione che possiamo raggiungere grazie alla pratica della meditazione. Se riusciamo a comprendere che il mondo, così com’è, è un’immensa fonte di sofferenza, non avremo nemmeno bisogno di abbandonarlo: semplicemente, smetteremo di anelare ad esso.
Alcune persone si scoraggiano, quando sentono parlare di Bodhicitta: la mente compassionevole del risveglio è vista come un traguardo irraggiungibile. 
C’è un solo modo per superare questo timore: fare del Lam Rim la nostra bussola, la nostra guida, e ricordarci ogni giorno che, se continueremo a seguire con costanza questo insegnamento, i risultati desiderati non mancheranno di manifestarsi.
La prima cosa da fare, per realizzare le qualità del Buddha che adesso ci sembrano così irraggiungibili, è abbandonare il fattore oscurante del mantenere caro il proprio sé, e coltivare al tempo stesso il fattore di mantenere cari tutti gli altri esseri senzienti. Perché dal fattore di mantenere caro il proprio sé hanno origine tutti, ma proprio tutti i nostri problemi, i nostri dolori, le nostre illusioni, e così via. Viceversa, dal fattore di mantenere cari gli altri derivano tutte le nostre fortune e tutte le nostre felicità.
Poi, come viene esposto nella sezione del Lam Rim relativa alla preziosa rinascita umana, è importante meditare sul fatto che le occasioni per incontrare la pratica buddhista e impegnarsi nella meditazione di equanimità sono davvero molto rare. Le persone che ci circondano, intanto, continuano a vivere sotto il dominio del proprio ego: ma noi, anziché scoraggiarci, dovremmo ricordarci in ogni istante che incontrare questo sentiero è stata per noi un’incredibile fortuna.
La cultura capitalistica incoraggia da sempre l’individualismo e la competizione: il concetto di vacuità, da questo punto di vista, può essere interpretato come un’espressione di debolezza o mancanza di amor proprio. 
È vero: la vita mondana – non solo in Occidente – è completamente incentrata sull’individualismo e sull’esaltazione dell’io: ma se ci impegniamo ogni giorno per coltivare ed enfatizzare un atteggiamento altruistico, riusciremo gradualmente a sottrarci al predominio dell’ego.
L’importante è ricordare che l’esaltazione della personalità e il desiderio di ottenere la vittoria a tutti i costi sono i due aspetti fondamentali di quello che nel buddhismo tibetano viene definito come il fattore di afferrarsi alla natura inerente o illusoria del sé: l’illusione nasce nel momento in cui ci convinciamo che il nostro sé, che viene definito sulla base dei cinque aggregati indistruttibili, esista in modo indipendente rispetto a tutti gli altri fenomeni. Da questo punto di vista, possiamo affermare che la vacuità è davvero la perfetta antitesi della competizione e dell’individualismo.
Credo comunque che la cosa migliore, per le persone, sia esaminare con attenzione gli effetti del proprio individualismo, ogni volta che esso si manifesta concretamente nelle loro vite. E chiedersi: “Questo atteggiamento, in ultima analisi, è per me fonte di felicità o di sofferenza?”
Se non facciamo costantemente questo tipo di esame, non riusciremo mai a capire che l’essenza dell’io e di tutti i fenomeni differisce in modo sostanziale dal loro modo illusorio di apparire: io stesso, in questo momento, potrei cedere a questa apparenza illusoria e affermare di essere qualcosa di concreto e indipendente che parla seduto su un letto, che a sua volta esiste come oggetto concreto e indipendente. Se ci basiamo sulla convinzione che l’io esista in modo indipendente, nessuna delle nostre azioni andrà a buon fine, e tutto, in un modo o nell’altro, sarà per noi fonte di sofferenza. Dovremmo sempre esaminare con attenzione il vero modo di esistere di tutte le cose: solo chi riesce ad andare al di là di questa apparenza illusoria può affrancarsi dalla sofferenza interiore che si innesca ogni volta che osserviamo i fenomeni come esistenti dalla propria parte.
Prendiamo in esame, per fare un esempio, la sconfitta della Nazionale di calcio italiana alle finali del Campionato europeo del 2012: un evento che è stato trasmesso e amplificato da tutti i giornali e da tutte le televisioni, e al quale ho casualmente assistito nel corso di un viaggio. Anche un evento apparentemente così banale, se analizzato nel dettaglio, è un’occasione davvero formidabile per analizzare la vera natura delle nostre attività samsariche: ci aiuta a comprendere quanta negatività si celi nell’esaltazione del sé e quanta tristezza e quanto dolore possano sorgere dalla competitività e dal desiderio di vincere a tutti i costi.
Cosa succede, alla fine di un campionato? Pensate ai tifosi che hanno fatto sacrifici e hanno speso tutti i soldi che avevano messo da parte nei mesi precedenti per andare all’estero a seguire le gare allo stadio: il tutto per assistere alla sconfitta della propria squadra del cuore, e per arricchire al tempo stesso una minoranza di persone – quelle che gli hanno venduto i biglietti. Quanta fatica per nulla!
Pensate poi a tutte le persone che, nel frattempo, hanno seguito la partita, allo stadio o da casa, e hanno accumulato karma negativo, perché in un modo o nell’altro hanno confermato e rafforzato il proprio senso illusorio del sé: i tifosi della squadra vincente si sono esaltati e si sono fatti prendere dall’orgoglio, mentre i tifosi della squadra sconfitta hanno ceduto alla rabbia o alla depressione. L’orgoglio che deriva da una vittoria e il senso di scoraggiamento causato da una sconfitta sono entrambi espressioni complementari di questo sé illusorio che si fortifica e si autoalimenta sempre di più, fino a diventare causa di rinascite sfortunate.
Per non parlare di quelli che non amano il calcio, e si arrabbiano perché i media danno un eccessivo risalto a questo tipo di eventi.
Lo vede? Da una partita di calcio, escono tutti sconfitti,! [ride]
Possiamo applicare questo ragionamento tutte le altre attività che assorbono abitualmente il nostro tempo e le nostre energie nel sasāra.
Il tema della vacuità dell’io, così fortemente enfatizzato dalla tradizione Mahāyāna, viene percepito da alcuni praticanti occidentali come una sorta di minaccia, un invito ad annullare se stessi.
Voglio rassicurare queste persone: non c’è assolutamente nulla da temere! Percepire la vacuità di tutti i fenomeni non equivale in alcun modo alla perdita o all’annullamento del proprio sé. L’io esiste, questo non dobbiamo metterlo in dubbio! Prova ne è il fatto che siamo in grado in ogni istante di operare una distinzione tra ciò che reca beneficio alla nostra persona e ciò che la danneggia: se fossimo sprovvisti di un io, non saremmo nemmeno in grado di fare un simile distinguo.
Il vero significato della vacuità è questo: l’io esiste, ma in un modo diverso da come siamo abituati a percepirlo, e da come normalmente ci appare. In altre parole, esiste come mera imputazione sulla base dei cinque aggregati. Una volta compreso questo punto, non c’è motivo di avere paura.
Anche la pratica della moralità è fonte di frequenti preoccupazioni: alcune persone temono di fare il passo più lungo della gamba e di non riuscire a mantenere nel tempo i voti o gli impegni presi. 
Ricordiamo innanzitutto che è possibile prendere diversi tipi di impegni: abbiamo i voti da laico e quelli da monaco, i voti del Bodhisattva e i voti tantrici.
Ciò premesso, la mia riflessione è questa: nessuno può prevedere con esattezza quando arriverà il momento della propria morte. Il Lam Rim è molto chiaro a questo proposito: se osserviamo direttamente la natura impermanente di tutti i fenomeni, ci renderemo immediatamente conto che la morte è ineluttabile e imprevedibile per tutti. Per questo motivo, è bene praticare subito il Dharma, senza rimandare a domani. Morire senza aver avuto occasione di praticare la moralità sarebbe davvero increscioso: ciò equivarrebbe a garantirsi una rinascita in un reame inferiore di sofferenza. Potremmo rinascere, ad esempio, in forma animale, e a quel punto non avremmo più la consapevolezza e la conoscenza che consentono di accumulare karma positivo; peggio ancora, potremmo rinascere negli inferni o nel reame dei preta, o spiriti famelici, e la nostra permanenza in quei regni si protrarrebbe per un tempo davvero interminabile.
Il glorioso maestro indiano Chandrakīrti spiegò che la moralità è la causa non comune e indispensabile di rinascita nei reami superiori di felicità, in forma umana o divina: lo stesso vale, a maggior ragione, per chi desideri raggiungere lo stato di śrāvaka, di pratyekabuddha e di bodhisattva.
Di più: come affermano le scritture, il mantenimento di una buona moralità è indispensabile anche per chi, pur non aspirando al sentiero dell’illuminazione, desidera semplicemente condurre un’esistenza serena nel sasāra. Le dieci azioni non virtuose sono sempre e comunque dannose; la pratica della moralità, viceversa, è benefica e indispensabile per tutti gli esseri viventi, anche per quelli che non sono interessati a prendere alcun voto.
Un’altra caratteristica che accomuna molti praticanti buddhisti, oggi come ieri, è la tendenza ad esaltare il primato della propria scuola o della propria tradizione, a discapito di tutte le altre.
Il Lam Rim sottolinea in più punti l’importanza di non parlare male delle altre forme di spiritualità: questo vale per il buddhista che parla male delle altre scuole buddhiste e/o delle religioni non buddhiste, per il non buddhista che parla male del buddhismo, e per qualsiasi altro caso del genere. Chi agisce in tal modo accumula una grande quantità di karma negativo.
Quali sono, oltre a quelle che abbiamo appena citato, le principali difficoltà con cui deve confrontarsi un moderno praticante buddhista europeo o americano?
Nel corso degli anni, come dicevo, ho avuto modo di osservare da vicino molti praticanti occidentali: il loro problema principale, devo dirlo, è la facilità con cui si scoraggiano al sopravvenire delle difficoltà. Mi riferisco in particolare agli ostacoli di origine interiore, mentale, che sono più frequenti in Occidente – a differenza di quanto accade nella mia terra d’origine, dove la gente è costretta a fare i conti soprattutto con problemi economici, o comunque di natura materiale.
Molti occidentali, sentendo parlare di buddhismo, pensano: “Forse è proprio questo il sentiero che mi consentirà di liberarmi per sempre dalle sofferenze mentali!” Partendo da questa premessa, iniziano a seguire le lezioni dei maestri, si mettono a studiare e a praticare il Dharma, e così facendo si illudono di raggiungere in breve tempo grandi realizzazioni e di lasciare alle spalle tutti i problemi che li avevano afflitti fino a quel momento. Passa un po’ di tempo, e queste persone si accorgono che le cose non vanno nella direzione desiderata: le sofferenze ci sono ancora, e le realizzazioni ottenute non sono così eclatanti. Molti, a quel punto, si scoraggiano, perdono la fede e smettono di praticare: alcuni, addirittura buttano via i libri di Dharma e le immagini sacre. Questa cosa, a un tibetano, accade molto di rado.
E sotto quali aspetti, a suo avviso, possiamo ritenerci avvantaggiati rispetto ai praticanti del passato? 
Devo dire che gli occidentali si distinguono per il loro entusiasmo e per il loro grande impegno nella pratica e nello studio. L’importante, ripeto, è ricordare che nessuno può ottenere grandi realizzazioni spirituali in breve tempo: non basta fare qualche sessione giornaliera di meditazione o recitare qualche mantra, per raggiungere traguardi così elevati. Non funzionava così in passato, e non funziona così nemmeno oggi.
In conclusione, vorrei chiederle di suggerire ai nostri lettori – in particolare a quelli che si avvicinano per la prima volta alla scuola tibetana Gelug – una meditazione o una semplice pratica che consenta loro di sperimentare nella vita di tutti i giorni i possibili benefici di questo percorso.
A questi lettori consiglierei di sperimentare tutti i giorni la cosiddetta pratica dei cinque poteri.
Il primo potere è quello della proiezione, che ci consente di decidere e pianificare le pratiche che faremo oggi, domani, tra una settimana, tra un mese, tra un anno, e così via.
Il secondo potere è quello del seme bianco, che include tutte le pratiche virtuose che possiamo sperimentare: in particolare le cinque pratiche preliminari che vengono descritte nel Lam Rim, e in generale ogni azione volta al conseguimento della nostra illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri.
Il Maestro Śāntideva, riferendosi al terzo potere, quello dell’abitudine, o familiarizzazione, insegnò che non c’è niente che non possa diventare facile grazie all’abitudine e all’esercizio quotidiano e ripetuto nel tempo. E con questo mi ricollego a una delle domande precedenti, quella relativa alla difficoltà di sviluppare una mente compassionevole ed equanime. Prendiamo il caso di una persona che desideri familiarizzarsi con la pratica della generosità: questa persona magari adesso non se ne rende conto, ma se continua ad allenarsi con costanza, un giorno sarà in grado di donare agli altri il proprio stesso corpo e la propria stessa vita; e lo farà con la stessa facilità con cui oggi potrebbe donare un frutto o un po’ di verdura. Lo stesso principio vale ovviamente per tutte le altre pratiche virtuose.
Il quarto potere è quello del rifiuto: se ci rendiamo conto che tutti i nostri problemi e le nostre sofferenze hanno origine dal fattore di avere caro il proprio sé, da quel momento in poi il nostro principale obiettivo diventerà quello di liberarci con ogni mezzo possibile da questa oscurazione, che è poi il nostro unico, vero nemico.
Il quinto potere, infine, è quello della preghiera: giunti a sera, possiamo fare il punto di tutto ciò che abbiamo fatto di positivo nel corso della giornata, e dedicare agli altri tutti gli sforzi compiuti, rinnovando il desiderio di raggiungere la suprema illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri.
Questa è la pratica che vi suggerisco di fare ogni giorno.
Si ringrazia la signora Heda Klein per la preziosa attività di traduzione simultanea dal tibetano all’italiano svolta nel corso dell’intervista.